Nei primi anni del ‘900 il capoluogo sardo subì quindi una forte immigrazione che creò una classe di persone nullatenenti che vivevano di espedienti e di lavori precari, mentre il costo della vita saliva costantemente così come i prezzi dei generi alimentari di largo consumo.
di Sergio Atzeni
La situazione della Sardegna, dopo l’unità d’Italia e l’annessione di Roma, era quanto mai delicata tanto che la regione era stata definita la più povera in assoluto del neonato stato.
Nel 1862 erano stati stanziati dei fondi per la costruzione di una moderna rete ferroviaria per collegare le principali città isolane, il cui studio fu elaborato dall’ingegner Benjamin Percy: ben poca cosa rispetto ai grandi problemi economici da risolvere.
L’attività mineraria rimaneva la più importante risorsa economica, ma i lavoratori erano sfruttati e costretti a turni massacranti di lavoro, che portavano grandi utili alle compagnie, mentre il popolo viveva tra gli stenti e la fame, non potendo acquistare prodotti come la carne e il pesce ma anche gli scarti come il ventrame, perché i prezzi erano inaccessibili alla maggioranza.
La destinazione dei terreni ex feudali affidati alla popolazione che esercitava il diritto di legnatico, pascolo e coltivazione (ademprivi), rimaneva un grave problema da risolvere quando una legge ne abolì l’uso e nel giro di pochi anni il popolo venne privato di una fonte importante di reddito.
Nuove e gravose imposizioni fiscali, nonostante un nascente sistema creditizio, la concorrenza estera sui prodotti agricoli e dell’allevamento, causarono nell’ultimo decennio dell’ottocento, una recessione economica senza precedenti che portarono all’abbandono delle campagne e all’acuirsi del fenomeno del banditismo.
Iniziò una consistente emigrazione verso i paesi europei e gli Stati Uniti, mentre Cagliari fu meta di numerosi abitanti dell’interno che, venduti tutti gli averi, cercavano una onesta sistemazione ed un lavoro anche modesto in città.
Nei primi anni del ‘900 il capoluogo sardo subì quindi una forte immigrazione che creò una classe di persone nullatenenti che vivevano di espedienti e di lavori precari, mentre il costo della vita saliva costantemente così come i prezzi dei generi alimentari di largo consumo.
Nel 1906 la situazione diventò insostenibili e molti cagliaritani non erano in grado di acquistare non solo la carne ma neanche il pane ed il vino, domenica maggio, la folla esasperata si riunì nel bastione di S. Remy per protestare.
Numerosi oratori inveirono contro gli sfruttatori ed i commercianti che si arricchivano col rincaro dei prezzi dei viveri e si creò un corteo che si diresse verso il palazzo civico, con l’intenzione di conferire col sindaco Ottone Bacaredda che, ricevuti i dimostranti, promise l’apertura di due forni che avrebbero venduto il pane a prezzo di costo così come una rivendita di carne.
La folla, rassicurata dalle parole del sindaco, lasciò il palazzo civico ed in corteo percorse via Lamarmora e giunse in piazza Martiri dove fu dispersa dalle forze dell’ordine.
Lunedì 14, tutto sembrava calmo e l’esattore comunale si apprestava alla riscossione della tassa sull’occupazione del suolo pubblico, dovuta dai rivenditori del mercato del Largo Carlo felice, ma i negozianti iniziarono ad inveire e minacciare il funzionario con l’intenzione di non pagare.
Giunsero guardie civiche con il comandante Fonsa e numerosi agenti di P.S., mentre la folla si faceva sempre più ardita e circondava il botteghino dell’esattore protetto dalle forze dell’ordine; i venditori afferrarono le loro ceste e percorrendo le vie della città venderono i prodotti a prezzi irrisori.
Una folla imponente intanto aveva affiancato i dimostranti ed il corteo percorrendo la via Roma danneggiando i tavolini del caffè Roma e, compiendo atti vandalici di ogni specie, giunse davanti alla manifattura dei tabacchi di viale Regina Margherita per far uscire gli operai.
Ma davanti alla manifattura c’erano già schierati numerosi carabinieri, guardie di P.S. e di finanza e civiche mentre un altro contingente era schierato nel viale Regina Elena; i dimostranti iniziarono ad inveire e tentare di forzare lo schieramento dei tutori dell’ordine, numerosi sassi furono lanciati mentre volarono pugni e calci da ambedue le parti.
Per evitare lo scontro fisico, le autorità fecero uscire i lavoranti della manifattura mentre un tenente colonnello dei carabinieri invitava alla calma; la folla diventò imponente e gridando slogan a favore dello sciopero generale si diresse verso la sede del partito socialista e presa la bandiera rossa dalla finestra viene fissata sull’asta una mezza pagnotta che simboleggia lo scopo della manifestazione: la fame.
Il corteo, con in testa la bandiera socialista, si presenta davanti a fabbriche e magazzini facendone uscire gli operai e giunge alla stazione delle ferrovie secondarie dove tenta di entrare distruggendo vetri ed infissi; numerose sigaraie si uniscono ai dimostranti e la lunga colonna si sposta dirigendosi verso la sede dell’Unione Sarda. E’ intercettata da un contingente di carabinieri ma sfonda i cordoni e riesce a passare, giungendo alla sede del quotidiano, dal quale sono fatti uscire i tipografi mentre la folla scaglia sassi contro i carabinieri che si ritirano per evitare pericolose conseguenze.
La massa si muove e arriva in via Manno, nel suo cammino fa uscire lavoratori da ogni fabbrica o bottega mentre i vetri delle finestre vengono infranti sistematicamente, la bandiera repubblicana con la mezza pagnotta sull’asta si unisce a quella socialista, nonostante le diverse concezioni politiche la fame riesce ad unire tutti.
La lunga colonna, seguita da un forte contingente di carabinieri, passa per via Azuni, per il Corso ed arriva in via S. Pietro (viale Trieste), tra gli applausi della gente alle finestre che sventola drappi di ogni tipo; un vecchietto sale su un cavallo e con un giunco in mano e si improvvisa generale, mentre un gruppo di monelli saccheggia un vicino campo di fave.
Tutti gli operai delle fabbriche lungo il tragitto seno fatti uscire ed il corteo, oramai gigantesco, si dirige verso la stazione delle Ferrovie Reali dove irrompe invano contrastato da carabinieri e soldati, continua la sua marcia ed arriva alla Playa presso la casetta della Quarta Regia chiamata s’Arrendu (luogo ove i pescatori sono obbligati a lasciare una quarta parte del pescato all’appaltatore del dazio che poi lo vende al mercato a prezzo concorrenziale) e tutto viene distrutto compresi registri e bollette, e si tenta poi di dar fuoco a mobili e porte e finestre.
La folla, diventata incontenibile, alle 15,15 ritorna verso la stazione dove è attesa da un formidabile cordone di agenti, soldati e carabinieri che intimano con tre squilli di tromba di disperdersi, poi con le pistole in pugno cercano di far indietreggiare la massa che viene spinta verso il palazzo Vivanet.
Sugli agenti piovono sassi e ogni sorta di oggetti, la grande vetrata della stazione è ridotta in briciole, un carabiniere ed un soldato cadono colpiti da pietre insieme a tanti commilitoni, la moltitudine preme e minaccia da vicino quando, senza ricevere alcun ordine, partono i colpi di pistola e la folla si apre, scappa, molti rimangono sul terreno impregnato ovunque di sangue.
La via Roma diventa un campo di battaglia, vengono rovesciate vetture tranviarie, e un drappello di soldati in difficoltà spara ancora ferendo altri dimostranti, i cordoni vengono rinforzati mentre arrivano autorità e rinforzi e continuano le scaramucce ed i corpo a corpo.
La folla esasperata si dirige al Bastione, danneggiando tutto ciò che trova nel tragitto, e si raduna davanti alla scalinata dove parlano alcuni oratori che protestano per l’eccidio e chiedono una inchiesta per scoprire i soldati responsabili; la massa poi si scioglie e si disperde.
Il giorno dopo, martedì 15 maggio, una moltitudine di gente si riunisce la Bastione di buon mattino e L’avv. Orano ed Umberto Cao ricordano le vittime ed invocano lo scioglimento del Consiglio Comunale, mentre alla bandiera rossa viene legato un drappo nero in segno di lutto, tran la folla sono presenti numerose persone giunte dai paesi dell’interno.
Un lungo corteo si dirige verso il palazzo civico, presidiato da un numeroso contingente di carabinieri e soldati, ed alcuni rappresentanti vengono ricevuti dall’assessore Valle al quale è richiesto di intercedere per liberare i dimostranti arrestati. La richiesta è accolta dalla magistratura ed i fermati vengono liberati tra gli applausi della folla.
Il corteo si mette in movimento mentre si alzano cori che ripetono “Viva la libertà, viva il socialismo”, riprendono gli atti di vandalismo si brucia e si distrugge ogni cosa: viene incendiato il casello daziario di via S. Benedetto, de Is Stelladas, di La Vega, si ribaltano tre vagoni ferroviari nella stazione di S. Mauro al canto dell’Internazionale socialista.
Alle 16, ennesimo comizio al Bastione, dove si apprende che il sindaco e la giunta hanno presentato le dimissioni, e la folla è in delirio e riprende a muoversi, sono presenti 15 mila persone che in colonna giungono al casello daziario di Sant’ Avendrace che viene distrutto completamente, così come quello di S. Gilla; la folla si riunisce poi in Piazza Yenne e canta l’Internazionale, poi tutti ritornano a casa.
Intanto arrivano in città forti contingenti di truppe in treno o a bordo di navi militari, la città è saldamente presidiata mentre disordini sono segnalati in vari punti.
Mercoledì 16 maggio, la folla si riunisce ancora al Bastione e si forma il solito corteo che attraversa le vie cittadine, questa volta è affamata, da giorni i negozi sono chiusi, e quando intercetta un carro carico di pane che scende in via Ospedale nulla l’arresta dal saccheggio nonostante i tre agenti di scorta.
Intanto al Bastione, riprendono i comizi e l’avvocato Orano e lo studente Michele Spano convincono la folla ad interrompere lo sciopero e riprendere il lavoro.
Ma una folla di commercianti, che nei giorni di sciopero ha avuto danni materiali e finanziari, si riunisce in piazza Martiri, invocando il pugno duro delle autorità contro la teppaglia scioperante, e forma un corteo di migliaia di persone che avanza per le vie principali di Cagliari gridando, tra gli applausi dei cittadini, “Abbasso la teppa, viva l’esercito” fin quando in via Manno incontrano un corteo di scioperanti che tenta l’aggressione ma, poiché in numero inferiore, desiste e si ritira tra le grida dei commercianti che ripetono “viva L’esercito, viva l’ordine”.
La contro-dimostrazione prosegue, ed al suo passaggio piovono applausi, i carabinieri ed i soldati che passano osannati, a molte bandiere esposte, viene tolto il drappo nero che segna il lutto; per la città girano anche cortei di scioperanti e capannelli di persone che commentano e la tensione risale la sera al mercato, quando i dimostranti pretendono di pagare il ventrame 20 centesimi anziché 30, questa volta i soldati intervengono in forze e la folla è caricata e dispersa.
Lo sciopero si conclude con il seguente bilancio: due scioperanti morti, Giovanni Casula e Adolfo Cardia; decine di feriti tra i dimostranti; almeno quaranta tra le forze dell’ordine.
Lo sciopero generale di quattro giorni a Cagliari, preoccupa le autorità, e prevedendo una replica nominano un nuovo Prefetto Onorato Germonio ed arrivano in città, a bordo di navi di linea centinaia di soldati, mentre navi da guerra cariche di truppe entrano in porto, precedendo addirittura loa squadra navale del mediterraneo.
I fatti di Cagliari hanno ripercussioni in Parlamento e Sonnino, presidente del Governo, deve rispondere a numerose interrogazioni dei Deputati,; intanto l’esempio del capoluogo è seguito anche all’interno dove scoppiano tumulti e proteste per il caro vita.