Improvvisamente Filippo si ammalò e Atilia vegliò giorno e notte il suo amato fin quando pregò gli dei di dare a Filippo la vita che era a lei concessa. E fu così che Filippo guarì.
Di Sergio Atzeni
Arrivare nella rada di Cagliari, dopo aver attraversato il Tirreno, doveva essere per i Romani del I secolo, liberazione ma anche sconforto e disperazione. Liberazione perché riuscivano ad arrivare alla mèta, disperazione perché stavano per sbarcare in una città di provincia lontana dalle ricchezze e dai fasti dell’Urbe.
La stessa sensazione devono aver provato Atilia Pomptilla e suo marito Lucio Cassio Filippo, patrizio romano che seguì il padre, caduto in disgrazia e mandato in esilio a Caralis: li possiamo immaginare abbracciati, immobili sul ponte, con i mantelli al vento, mentre la biremi doppia Cala Mosca, a guardare la città che il destino loro aveva assegnato. Affacciati
La Grotta della Vipera a cagliari in via Sant’Avendrace
Non doveva apparire molto inebriante quel panorama, una lingua di terra protetta da una corona di colli spogli di vegetazione: Bonaria, Monte Urpino, Monte Claro, Castello, Tuvixeddu, San Michele, Sant’Elia.
Poi ancora la pianura che andava a morire nei monti dei Sette Fratelli, che dalla nave dovevano apparire maestosi sebbene lontani. Il colore dominante era il giallo, quello del grano che i Romani avevano imposto come coltura.
Intanto, l’imbarcazione aveva guadagnato lo stagno di S. Gilla e lentamente si avvicinava all’ormeggio e il solito trambusto, caratteristico di ogni porto, attirò l’attenzione di Filippo e Atilia. Sbarcarono e, sicuramente, si recarono al Foro, centro dei pubblici uffici, dove vennero informati sulla città e sulle sue attrattive.
Allora, sotto i Romani non vi era una sola Cagliari, ma probabilmente tre: una sorgeva sullo stesso luogo dove i fenici l’avevano fondata, sulle rive della laguna di Santa Gilla allora navigabile e le vecchie case, come abitudine dei Romani, non vennero abbandonate ma adattate e rese abitabili per la plebe ed i lavoratori portuali. Nel lato est, nei pressi di Sant’Elia e San Bartolomeo, esisteva un altro borgo, i cui morti venivano deposti nella necropoli di Bonaria.
Ma la Caralis “moderna” era situata nei pressi di piazza del Carmine che ne costituiva il centro, una strada lastricata con numerose statue ai lati, portava alla elegante zona residenziale di via Tigellio e del Corso, dove splendide “domus” sorgevano in posizione leggermente elevata.
In una di queste domus, Atilia e Filippo si sistemarono e passarono lunghi anni e la nostalgia di Roma, pian piano, scomparve confortati dal loro profondo amore e dall’attaccamento alla loro nuova città.
Cassio Filippo e la sua consorte si recarono, senz’altro, più volte a vedere i lavori che fervevano per la costruzione del nuovo Anfiteatro che avrebbe allietato con gli spettacoli loro e la cittadinanza.
La tranquillità di Calaris era turbata, di tanto in tanto, da notizie portate dai legionari sugli scontri al confine con la Barbagia dove i discendenti dei Nuragici, bellicosi e arditi, compivano frequentemente atti di guerriglia.
Chissà quante volte Atilia e Filippo, accompagnarono degli amici all’ultima dimora, sul colle di Tuvixeddu, deceduti per una strana malattia che portava febbre altissima fino a distruggere la resistenza dell’organismo. Chissà se seppero mai che quella malattia era portata dalle zanzare che infestavano gli stagni intorno alla città.
Improvvisamente Filippo si ammalò e Atilia vegliò giorno e notte il suo amato fin quando pregò gli dei di dare a Filippo la vita che era a lei concessa. E fu così che Filippo guarì.
Erano gli inizi del II secolo d.C. e Atilia, dopo circa 42 anni di matrimonio e di amore, morì.
Fu sepolta in una grotta naturale, ampliata artificialmente, ai piedi della necropoli di Tuvixeddu e furono scolpiti, nella facciate superiore, due serpenti o vipere, che per i Romani rappresentavano la fedeltà, con la seguente scritta lineare: “Edificato e dedicato alla sacra memoria della figlia di Lucio, Atilia Pomptilla a spese del marito”.
All’interno, nelle pareti furono incise 12 poesie in latino e greco una delle quali recita: “Quello che tu credi un tempio e spesso, oh viandante, veneri, serba le ceneri e le piccole ossa di Pomptilla. Sono sepolta in terra sarda, dove ho accompagnato mio marito ed è fama che per lui io abbia voluto morire”.
La grotta fu salvata nel 1822 dal Conte Alberto Della Marmora, che ne evitò la distruzione facendo deviare il tracciato della costruenda Carlo Felice.