Nel mese di aprile del 1652 una nave attraccò ad Alghero, proveniente da Barcellona, col suo carico di uomini, di merci e di morte, infatti un appestato sbarcò e nonostante sapesse che il male l’aveva colpito non lo confessò, forse per evitare la quarantena ed il lazzaretto. Il male si diffuse rapidamente ed arrivò anche a Sassari portato inconsapevolmente da pellegrini e mercanti, i morti furono subito centinaia, poi migliaia ed il Viceré di Cagliari fu informato dell’emergenza.
di Sergio Atzeni
Quella nave entrò nel porto di Alghero come tante altre, proveniva dalla Francia ed aveva a bordo un marinaio del tutto speciale. Insieme agli altri colleghi scese a terra bramoso di riempirsi lo stomaco e bere a volontà, per dimenticare gli stenti e le umiliazioni di bordo.
Era allegro e non risparmiava complimenti e beveva e mangiava in continuazione. Improvvisamente, cadde supino come colpito da un profondo sonno. Inutile ogni soccorso… era morto.
Era dicembre del 1582 e il defunto venne seppellito con triste cerimonia alla presenza dei suoi colleghi marinai.
Nei giorni seguenti quella osteria fu testimone di altre morti e altre ancora, fu fatto intervenire il medico che per caso si intendeva di malattie contagiose; bastò una visita superficiale per scoprire i classici bubboni che la peste produce nell’ammalato. Fu allarme generale e si informò il Viceré residente a Cagliari; Alghero fu subito circondata da soldati che impedivano di entrare o uscire dal centro abitato.
I morti si moltiplicarono all’interno della città fortezza, lungo i vicoli, nelle piazze, nella spiaggia, nelle chiese, si accumulavano i cadaveri che nessuno aveva il coraggio di seppellire. Gli algheresi, in un primo tempo non credettero alla epidemia e commettevano imprudenze che favorivano il contagio.
Si cercò di bruciare case e averi dei contagiati, evitare riunioni di cittadini, si chiusero le chiese per impedire contatti; forse per la tempestività con cui il flagello fu affrontato, dopo centinaia di morti l’epidemia cessò e non oltrepassò la cinta muraria della città.
Passarono gli anni ed in Sardegna si continuò a morire per carestie ma non per peste.
Nel 1650 in Catalogna scoppiò un’altra epidemia di peste, tutti cercarono di fuggire, alcuni per via terra, altri per mare.
Nel mese di aprile del 1652 una nave attraccò ad Alghero, proveniente da Barcellona, col suo carico di uomini, di merci e di morte, infatti un appestato sbarcò e nonostante sapesse che il male l’aveva colpito non lo confessò, forse per evitare la quarantena ed il lazzaretto.
Il male si diffuse rapidamente ed arrivò anche a Sassari portato inconsapevolmente da pellegrini e mercanti, i morti furono subito centinaia, poi migliaia ed il Viceré di Cagliari fu informato dell’emergenza.
La sfortuna volle che a Cagliari non ci fosse il Viceré titolare ma un sostituto facenti funzioni, che non se la sentì di prendere alcun provvedimento in mancanza del suo superiore.
Intanto la peste dilagava, raggiungendo paesi e villaggi distanti chilometri da Sassari.
Nella città i morti non si contarono più, il panico regnava in ogni casa; alcuni scapparono portando con sé il seme del male diffondendolo ulteriormente.
Si arrivò così al mese di luglio, con il caldo l’epidemia si trasformò in strage e si propagò in modo inarrestabile.
A quel punto, ben tre mesi dopo l’inizio del contagio, si decise di isolare il Logudoro e due delegati viceregi furono inviati nelle zone colpite per rendersi conto della situazione.
I due funzionari, Giovanni Pirella e Gavino Pallaccio, per via mare, con una scorta di soldati raggiunsero il sassarese sbarcando a Castel Aragonese (Castelsardo), inspiegabilmente risparmiata dal contagio.
I funzionari arruolarono delle guardie e si fecero consegnare viveri dai grandi proprietari terrieri per rifornire Sassari.
Ma la situazione era ormai sfuggita di mano e la peste raggiungeva un paese dietro l’altro in direzione sud, arrivando a Sardara e oltre. Le guardie ed i soldati furono schierati in ogni paese contagiato per evitare un’ulteriore diffusione dell’epidemia; ma fu tutto inutile.
I sardi morivano oltre che per la peste, anche per la mancanza di cibo; scene di tragedia si svolgevano in ogni luogo abitato.
Assalti ai panifici, ai granai, razzie di animali al pascolo e la malattia continuava la sua inarrestabile avanzata verso Cagliari.
I grandi proprietari essendo gli unici che potevano perdere ogni avere assoldarono armati per difendere le proprietà, ma anch’essi morivano a centinaia; il denaro non fermava la peste.
Sassari diventò una città apocalittica con morti e incendi in ogni dove, i defunti non venivano più seppelliti e gatti, cani randagi e ratti erano gli abitanti disinvolti e senza paura che circolavano nei luoghi abitati. Il morbo intanto giunse alle porte di Cagliari, il Viceré ed i notabili schierarono soldati e sgherri in pianura per respingere con la forza gli ammalati.
Ma improvvisamente i morti cessarono e il popolo, entusiasta per lo scampato pericolo, rientrò nelle proprie case e si riunì nelle chiese per le messe di ringraziamento; era l’estate del 1653.
Ma due anni dopo, ad aprile del 1655, la peste riapparve improvvisamente nei pressi di Cagliari.
A Villanova morì il primo cagliaritano e fu il panico: i morti diventarono centinaia ed i lazzaretti improvvisati, Castello di S. Michele, convento di Bonaria ed il convento della SS. Trinità, diventarono insufficienti.
Le porte della rocca rimasero chiuse, i nobili, i ricchi ed i governanti cercavano la salvezza isolandosi, mentre la plebe di Marina, Villanova e Stampace moriva per peste, per fame e per disperazione.
Anche Castello fu raggiunto dalla malattia e causò la fuga dei nobili nei loro possedimenti e nei loro feudi, asserragliandosi e lasciando il popolo al proprio destino.
Castello era rimasto in mano ai religiosi che si davano da fare per guarire le anime, nulla riuscendo contro il male epidemico.
Villanova si spopolò rapidamente, solo i morti ed i vecchi sopravvissuti si vedevano per le strade.
Decine di abitazioni furono depredate, nella notte gli incendi purificatori facevano di Cagliari un girone infernale.
Fu allora che, spinti anche dal clero, i popolani rimasti, chiesero una processione per invocare la grazia. Era la primavera del 1657.
Dopo 1.350 anni dalla sua morte, S. Efisio fu invocato dal popolo, segno di un ricordo del martire, tramandato di generazione in generazione.
Le reliquie del santo attraversarono le vie di Cagliari seguite da centinaia di persone, che sfidarono il pericolo di contagio, ma animate da una fede smisurata.
La peste, cessò. Nessuno da quel giorno fu più contagiato; non si può attribuire il fatto se non ad un miracolo, richiesto dalla gente e concesso dal Santo.
Ancora oggi rendiamo grazie per quel miracolo a S. Efisio facendolo sfilare in processione fino al luogo del suo martirio: non senza pensare ai sardi che disperati morirono in quegli anni di epidemia.