Lo sfruttamento, nonostante arrivi ad altissimi livelli, non soddisfa la proprietà della miniera che per poter avere più utili pensa di diminuire di un’ora la pausa pranzo, costringendo i dipendenti a interrompere il lavoro alle 12 e riprenderlo alle 14 anziché alle 15. E’ palese che in questo modo aumentino le ore lavorative: gli operai sono costretti a cavare le pietre dall’alba al tramonto come nel famigerato periodo medievale
di Sergio Atzeni
All’inizio del ‘900, l’unica attività industriale in Sardegna è quella estrattiva, concentrata nel Sulcis-Iglesiente.
Molte miniere sono di proprietà di società straniere che mettono in campo ridotti capitali ma possono contare su un notevole profitto in quanto dispongono di manodopera a basso costo senza alcun diritto codificato.
Gli operai che provengono dall’ambiente contadino che lasciano per avere la certezza di una pagnotta, sono senza protezione e costretti a lavorare con turni massacranti che raggiungono nella norma le tredici ore giornaliere.
Manca qualunque controllo sanitario, anche molti adolescenti vengono impegnati senza scrupoli, gli incidenti si ripetono quotidianamente e chi ha la fortuna di resistere in quella bolgia viene minato nel fisico da malattie di ogni genere come la silicosi e la tubercolosi, che portano quei poveretti alla morte precoce.
La “ Socièté anonime de mines de Malfidano”, è la titolare dei diritti di sfruttamento delle miniere di Buggerru e, grazie all’aiuto di potentati pubblici, riesce a impossessarsi di tutti i terreni intorno al paese ed è anche proprietaria degli alloggi e degli spacci, riuscendo a imporre i propri prezzi e a tenere in mano le leve dell’economia locale in regime di assoluto monopolio.
I minatori dipendono quindi, anche nei momenti di pausa dal lavoro, dalla società la quale si rimpossessa con gli interessi del magro salario versato ai dipendenti: un giro vizioso che arricchisce l’azienda mineraria e impoverisce i minatori che hanno solo l’impressione di avere un introito fisso, ma in realtà sono indebitati regolarmente proprio con il loro datore di lavoro che diventa arbitro della loro esistenza.
Lo sfruttamento, nonostante arrivi ad altissimi livelli, non soddisfa ancora la proprietà che per poter produrre più utili pensa di diminuire di un’ora la pausa pranzo, costringendo i dipendenti a interrompere il lavoro alle 12 e riprenderlo alle 14 anziché alle 15. E’ palese che in questo modo aumentino le ore lavorative: gli operai sono costretti a cavare le pietre dall’alba al tramonto come nel famigerato periodo medievale.
L’ideatore di questo provvedimento è il direttore della miniera ing. Giorgiades che non prevede però la reazione degli operai che, nonostante nessuna protezione sindacale o delle istituzioni, decidono di scendere in sciopero per protestare contro la inumana decisione della società Malfidano. All’iniziativa dei lavoratori non rimane estraneo il neofita del sindacalismo sardo Giuseppe Cavallera, di origine piemontese e socialista della prima ora, giunto nell’isola nel 1897 per sfuggire alle persecuzioni di uno stato che non tollerava ancora le posizioni politiche di sinistra.
Quasi tremila lavoratori di Buggerru incrociano le braccia è il 4 settembre del 1904, la direzione della miniera presa alla sprovvista, decide di chiamare la forza pubblica per costringere gli operai a riprendere il lavoro. Una commissione di scioperanti, guidata forse dal Cavallera, intavola delle trattative con il direttore Giorgiades alla presenza del sottoprefetto, mentre due compagnie di fanteria arrivano in paese provenienti da Iglesias e prendono alloggio in un edificio della miniera adibito a falegnameria dove alcuni uomini, ingaggiati provvisoriamente, stanno provvedendo a sistemare il laboratorio per permettere alle truppe di sistemarsi.
Gli scioperanti che sostano davanti alla palazzina della direzione in attesa dei colleghi che stanno discutendo con la proprietà odono dei rumori provenienti dalla falegnameria e, intuendo che qualcuno stia lavorando nonostante lo sciopero, iniziano a gridare: “Crumiri, crumiri. Venduti, venduti”.
Numerosi sassi vengono lanciati verso la falegnameria colpendo qualche militare che, forse preso dal panico, apre il fuoco contro la folla caricata poi con le baionette.
Decine di feriti rimangono a terra e tra loro tre morti. Un eccidio gratuito che non ha nessuna giustificazione e che serve a far capire quale è il clima che i poveri lavoratori devono affrontare giornalmente, soli contro tutti, con le autorità istruite dai politici a proteggere la classe imprenditoriale dalla quale ottengono dei vantaggi e dei finanziamenti per le loro campagne elettorali. Uno Stato quindi fondato sulla prepotenza che nulla ha di liberale e che concede il voto solo a chi ha un censo e una istruzione, dimenticando e abbandonando la maggioranza dei cittadini che vive in una condizione di terribile emarginazione.
È la Sardegna dei padroni, dello strapotere di questi nuovi “Feudatari” che con l’imprimatur delle istituzioni ora hanno uomini da gestire, da sfruttare, da impoverire, da minacciare, da distruggere nel fisico e nel morale: questo causa in quegli anni l’abbandono dell’isola da parte di migliaia di disperati che cercano oltreoceano almeno la speranza per una vita migliore.
Il quadro esposto ha una conferma nell’atteggiamento del sindaco di Buggerru, che tenta di attribuire la responsabilità dell’eccidio agli stessi scioperanti, scrive una lettera all’Unione Sarda nella quale sostiene le gravi colpe dei sindacalisti socialisti che hanno fomentato i disordini per i loro scopi politici.
L’Unione Sarda, in mano a Cocco Ortu e alla classe imprenditoriale, non ha interesse a schierarsi con i poveri minatori e relega la notizia dei gravi fatti in seconda pagina con un articolo di 20 righe, la prima pagina è occupata solo dalla notizia della nascita dell’erede al trono Umberto II, destinato a regnare solo un mese.
Poiché la responsabilità dei fatti “deve” essere attribuita necessariamente ai minatori, la reazione delle autorità è energica e decine di scioperanti vengono accusati di sedizione e arrestati, incatenati alla stregua dei più pericolosi delinquenti, sono fatti sfilare per le vie di Iglesias tra due ali di carabinieri a piedi e a cavallo: un palese monito per coloro che hanno intenzioni ostili e pensano ad altri scioperi.
Nonostante la evidente connivenza tra le istituzioni e la classe imprenditoriale e lo sforzo per mettere le cose a tacere, la notizia dell’eccidio valica il Tirreno e giunge in quei luoghi dove esiste una classe operaia compatta e dove si lotta già da tempo per conquistare i più elementari diritti sindacali.
Il 16 settembre 1904 viene proclamato uno sciopero generale che paralizza ogni attività in tutto il territorio nazionale: è il riconoscimento operaio al sacrificio dei Sardi.
Quei morti in quel piccolo e sconosciuto paese della Sardegna riescono quindi a mettere in primo piano e a far conoscere le condizioni inumane dei lavoratori e le prepotenze dei padroni.
Convincono il governo Giolitti che la classe operaia è diventata una realtà della nazione dalla quale non si può prescindere, anzi si deve arrivare a patti per sperare in una moderna industrializzazione dell’Italia. Purtroppo, solo per il settentrione della nazione, ci saranno dei miglioramenti, lì la forza dei lavoratori è temibile e quindi è opportuno accontentarli, nell’isola invece l’economia agro-pastorale fa della classe operaia una ristretta minoranza circoscritta al solo Sulcis-Iglesiente, che è lontano dalle leve del potere e non esiste, in quel periodo, nessuna forza politica che sposi la causa di quei poveracci che in maggioranza non hanno diritto di voto e che non possono interessare chi tiene solamente al potere e alla sua poltrona in parlamento.